In questo periodo mi sento un’allergica allo sbando. Ho dovuto sospendere il vaccino per le graminacee che facevo da almeno cinque anni (la casa farmaceutica mi ha comunicato che non lo produce più). Fatico a comunicare con la mia specialista (è un essere umano anche lei e negli ultimi tempi non sta bene). L’idea di iniziare tutta la trafila con un nuovo allergologo non mi alletta per motivi differenti. Per prima cosa perché dovrei sospendere la terapia a base di antistaminici (sono resistita due giorni senza e poi sono tornata sui miei passi) altrimenti qualsiasi test non avrebbe senso. In secondo luogo temo che la strada intrapresa – e questo diario virtuale lo sta testimoniare – a base di quindici anni di “pratica dell’astensione” (nel dubbio togliere – cibi e prodotti diversi – e rinunciare a una vita “normale”) mi sta portando alla chiusura sterile a tutto.

Qualche dubbio aveva cominciato a farsi largo tra le mie meningi già l’anno scorso (ne avevo parlato a giugno 2014). Quest’estate ho “soggiornato” a lungo sotto l’ombrellone accanto a quello di una mamma sensibile al tema delle allergie: la sua bambina è allergica grave al latte vaccino, tanto da essere in perenne allarme (e munita di adrenalina anche in riva al mare), visto che anche solo il prick per alimenti aveva causato una crisi acuta nella figlia. La sua scelta – su indicazione della pediatra – è stata quella della desensibilizzazione. Ha trascorso i mesi estivi tra la nostra città e un centro nel nord d’Italia per iniziare – e poi procedere a casa – la desensibilizzazione a partire da un latte non-vaccino. L’obiettivo della procedura di desensibilizzazione, che va fatta solo sotto controllo medico, prevede di rendere il paziente tollerante all’allergene responsabile somministrando dosi crescenti dell’allergene incriminato al quale il paziente stesso è sensibile. Si ottiene così una riduzione delle reazioni infiammatorie.

Essendo io favorevole alla desensibilizzazione (vista la scelta di fare il cosiddetto vaccino appunto), non vedo perché non dovrebbe funzionare anche con gli alimenti.

La settimana scorsa ho letto un articolo su Eurosalus (sono iscritta alla loro newsletter) su come un dolore o un trauma possa dare inizio ad una malattia (non solo ad allergie, ma a me ovviamente interessa applicarlo al mio caso specifico). La tesi è molto semplice e viene fatto un esempio molto calzante. Se una persona viene aggredita lungo un particolare percorso, tenderà ad evitare successivamente di fare quello stesso percorso. Non è la strada che ha aggredito quella persona, eppure riesce più facile incolpare il tragitto.

“Il motivo evoluzionistico per cui noi caratterizziamo l’ambiente circostante come possibile “colpevole” è facile da capire: se subiamo un dolore, una sofferenza, una violenza, il nostro organismo identifica e analizza con attenzione quali sono gli spazi e i luoghi in cui il dolore si è manifestato. Per l’organismo umano è ambiente circostante non solo la strada percorsa, ma anche l’aria respirata o il cibo presente nell’intestino o mangiato qualche ora prima.”

(Tratto da “Perché il tuo dolore dà inizio alla malattia” di A. Speciani)

Secondo l’allergologo e immunologo milanese la soluzione passerebbe per la rieducazione e per la tolleranza immunologica attraverso un riavvicinamento graduale e controllato a cibi, pollini e ambienti circostanti.

La domanda resta aperta. Desensibilizzazione: sì o no?

In settimana vedrò la mia omeopata che mi aiuterà a superare anche questo periodo cupo.