Più di un mese fa vi raccontavo del mio nuovo lavoro. Continuo a fare la bibliotecaria, ma ho cambiato datore e sede.
Dal 2006, anno tra l’altro in cui è nato il mio primogenito, ho scelto (che poi tanto scelta non era, visto che non avevo molte altre alternative se volevo continuare a fare la bibliotecaria), tutti i giorni dovevo farmi una ventina di chilometri in macchina per raggiungere la mia sede di lavoro e altrettanti per tornare. In molti mi hanno dato della folle ad aver accettato una tale soluzione, ma all’inizio non mi pesava, anche perché in quei venti minuti di automobile, la testa aveva il tempo di resettarsi e di permettermi di lasciare fuori dalla porta di casa i nervosismi che a volte stare con il pubblico comporta. Negli anni il numero delle ore trascorse fuori casa sono diminuite, ma comunque ero in grado di rientrare per il pranzo.
Da quest’anno ho scelto di allungare la strada di un’altra ventina di chilometri, ma soprattutto sono cresciute le ore di lavoro. Insomma esco di casa alle sette meno un quarto tutte le mattine e rientro verso le due e tre quarti. Due volte alla settimana mi fermo anche nel pomeriggio.
La cosa più importante è che sono dovuta scendere a patti con la mia alimentazione da asporto.
Devo essere sincera: le prime due settimane ho fatto la fame. Anzi, pensavo di essere riuscita a trovare una soluzione a quei fetenti cinque chili di troppo. In realtà le novità, di qualsiasi genere esse siano, tarpano il mio appetito. Mi sazio della bellezza di ciò che vivo in quel momento. E’ successo così quando ho conosciuto mio marito, quando sono rimasta incinta di mio figlio e ora con questo nuovo impegno lavorativo.
Finite le prime due settimane di “idillio”, il mio fisico ha cominciato a reclamare cibo.
Nella sede in cui lavoro c’è un bar interno e ho cominciato a sondare l’offerta. Per capire se con un bar ci andrò d’accordo nel futuro ordino il mio bene di sostentamento per eccellenza: un latte bianco molto caldo senza schiuma.
Facile, no?
No! Infatti finora il latte non è mai stato né abbastanza caldo, né senza schiuma a sufficienza, nonostante ogni volta abbia sollecitato la richiesta.
Allora mi sono organizzata diversamente.
Mi porto da mangiare da casa: mele, banane, yogurt naturale, carote e finocchi.
Se considerate che da dove parcheggio la macchina alla biblioteca in cui presto servizio sono quasi dieci minuti di salita (se procedo a passo spedito), prevedo che il mio fisico subirà uno shock non indifferente.
Certo, ho dovuto rinunciare alle camminate all’alba sul lungomare e a causa di un dolore intermittente ad un piede ho temporaneamente sospeso lo yoga mattutino (tranquilli, sto cercando un bravo fisioterapista che mi rimetta in sesto), ma credo che il mio aspetto cambierà.
Non è detto che sia un miglioramento, ma in fondo un po’ ci conto. Quindi: allergie alimentari e lavorare fuori casa? Sì, si può fare!